La storia del jazz è piena di enfant terribles, individui maledetti, figure leggendarie che sembrano essere nate per essere protagonisti di storie funeste. Outsiders destinati alla malavita, ma che da essa vengono salvati grazie al loro innato talento. Tony Fruscella era uno di questi.

Fruscella nacque al Greenwich Village nel 1927, sebbene la sua famiglia appartenesse alla classe operaia italo-americana di quel quartiere, piuttosto che al tessuto sociale bohémien. Trombettista, emerse quasi dal nulla quando, ventitreenne, entrò a far parte del quintetto di Lester Young. Un musicista solitario, un irregolare con cui Lester stabilisce subito un sodalizio non solo artistico, ma anche umano, un’affinità elettiva. A differenza di Young, Fruscella non era un bopper, il suono della sua tromba era largo e orientato verso il registro inferiore dello strumento, spoglio di virtuosismi, con un fraseggio rapido, logico e rigoroso, un po’ alla maniera di Chat
Baker.

Sopraffatto da alcool e droghe, il povero Tony si ammala e, a soli 28 anni, sparisce dalla scena del jazz. Sopravvivrà solo e dimenticato da tutti fino al 1969, senza ricevere riconoscimenti postumi.

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