No, non riesco proprio ad abituarmici.
Questa storia di non poter viaggiare, anzi di non poter neanche uscire dal mio comune mi pesa moltissimo. Ho passato gli ultimi 60 anni ( ! ) viaggiando sempre, incontrando la gente più diversa, mangiando i cibi più sorprendenti.
Adesso sono qui, tappato in casa con l’aggravante di avere questo fastidio alle gambe (stenosi spinale ?).
Mah… non mi resta che rassegnarmi e consolarmi pensando ai posti che ho conosciuto: il quartiere San Telmo di Buenos Aires, con quella meravigliosa colonna sonora che è il tango. O la Lower East Side di New York, oggi quartiere rispettabile e piuttosto caro, ma ai mei tempi (era il ‘67) una specie di rifugio di tutti i derelitti della città, tossici, alcolizzati, barboni, gente senza futuro e con un passato da dimenticare, ma dove, miracolosamente, brillava un gioiello, quello che era probabilmente il jazz club più speciale di New York: “Slug’s”, un budello maleodorante con un piccolo palcoscenico in fondo dove però ogni sera esplodeva una musica fantastica, nuova, sorprendente.
Albert Ayler, Jackie McLean, Cecil Taylor e poi Lee Morgan, Hank Mobley.
Quante notti ho passato in quel buco, quanta musica geniale ho avuto la fortuna di ascoltare e quanta musica ho suonato lì dentro con i musicisti che solo un paio d’anni prima mi sembravano irraggiungibili: Shepp, Mobley, Cecil Taylor.
E Berlino Ovest, prima della caduta del muro. Una specie di paradiso in terra circondato dal grigiore e dalla paranoia della Germania Est. Un’enclave del mondo occidentale, piena di artisti, di vita, di movimento. Una città dove a qualunque ora del giorno e della notte potevi comprarti qualunque cosa, dato che l’idea era quella di evidenziare il più possibile la differenza abissale tra Berlino Ovest e Berlino Est.
Era l’88 e ci sono stato 10 giorni con Cecil Taylor facendo un concerto a giorno. Giorni indimenticabili.
E la Londra del ‘65.
L’epoca dei Beatles, della musica sperimentale, delle minigonne, degli hippies, delle canne a gogo e tutto il resto.
O la prima volta al Blue Note di Tokyo. Città affascinante, d’una civiltà e d’una educazione che noi con ce la sognamo neanche. È il Blue Note sicuramente senza paragoni più bello di tutti i Blue Note del mondo. Con un sistema di amplificazione strepitoso, un pubblico eccezionale e una cucina indimenticabile.
Per non parlare dell’Italia.
Suonare questa musica significa girare dappertutto per il nostro paese, finendo anche in posti sorprendenti dove senza la musica non saremmo mai finiti. E ci si rende conto che l’Italia è veramente meravigliosa e che non ce n’è per nessuno.
Peccato gli italiani
(scherzo naturalmente… o no ?)
Enrico Rava – fonte profilo Facebook Enrico Rava, 15 novembre 2020

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