Come la cornetta rovesciata di Gillespie, anche la figura del sottilissimo Gerry Mulligan, alto abbastanza da dominare il baritono, con i suoi capelli rossi da ragazzo di campagna (per poi diventare il grande profeta bianco) divenne l’inconfondibile icona dei musicisti jazz della sua generazione. Il successo del suo quartetto pianoless, con Chet Baker alla tromba, Chico Hamilton alla batteria , Bob Whitlock al basso e appunto Mulligan al baritono sax fu descritto da lui stesso basato sul “contrappunto improvvisato”.
Nel 1982 in una delle sempre più frequenti tournèe in Italia, divenuta per lui, dopo il matrimonio con la signora Franca una specie di seconda patria, al Teatro Orfeo di Milano venne eseguito un eccellente concerto del quartetto con la Jazz Big Band della RAI.
Gerry detestava il termine “jazz” al punto da evitare di pronunciarlo: lo considerava limitante, superato e inutile. «Io suono il sax baritono, il sax soprano e il pianoforte, ma prima di tutto sono compositore e arrangiatore» ripeteva. «In quanto tale non accetto alcun limite alla mia creatività che si deve proiettare liberamente in ogni direzione, senza porsi il problema assurdo di rispettare certe regole di linguaggio melodico, armonico e ritmico».
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