Il Punk ebbe i titoli di prima pagina dei giornali ma il Reggae si dimostrò fondamentale nel porre fine alla frattura tra adolescenti bianchi e neri. Era “L’estate dell’odio” del 1977, condotta dai ragazzi dal ghigno beffardo, con un giacchetto di pelle addosso, abbondanti capelli ricci in testa, una maglietta strappata e, naturalmente, niente pantaloni a campana, il detestato simbolo hippie.
 
All’Hackney Town Hall di Londra, accanto ai ritratti dei personaggi vittoriani dalle lunghe basette, si esibirono i Cimarons cantando Chant Down Babylon e i Generation X ringhiando Wild Youth. A Brixton invece gli Slits, all’apice della riottosità, dividevano il palco con la band di Birmingham Steel Pulse, il simbolo britannico del reggae militante.
 
Più che un “Punky Reggae Party” che Bob Marley aveva gioiosamente celebrato su disco quella stessa estate, quelle erano esibizioni che segnavano la nascita di una nuova Inghilterra che vedeva mettere ai margini il neofascista “National Front” per fare posto a una nuova era dove l’impollinazione musicale tra i generi divenne la norma. Bande rock-reggae come i Police, o il revival ska degli Specials o artisti di casa come Janet Kay e il suo lovers rock occuparono gli spazi giovanili e le classifiche. Poi vennero gli UB40, i Culture Club, i Soul II Soul che rivelarono un’era che non distingueva più i colori delle persone, prevalendo un sentimento di unità e accomunanza.
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