Fu un lavoro commissionato a Ellington da George Wein per essere presentato al New Orleans Jazz Festival del 1970. L’album vinse nel 1971 il Grammy per la “Best Performance” delle Big Band. Il disco fu registrato in due tempi; una prima parte ad aprile del 1970, la seconda invece il 13 maggio, due giorni dopo la morte del sassofonista dell’orchestra Johnny Hodges.

Con quest’opera, gli istinti musicali di Duke Ellington sono doverosamente rappresentati perché la New Orleans Suite contiene il meglio della sintesi di una vita dedicata dall’autore alla musica radicata nella “culla del jazz”.

Nonostante i suoi 71 anni di età (Ellington era nato nel 1899), i brani sono pieni di vivacità e realmente catturano la misteriosità di New Orleans.

Ognuno di noi ha nella propria testa una lista di cose da salvare e da portare via “in caso d’incendio”. Per quanto mi riguarda non ho dubbi nell’includere tra le mie questo capolavoro musicale. 

Tutte le composizioni sono di Duke Ellington che ha voluto così omaggiare New Orleans, la sua musica, i suoi umori e i suoi personaggi, regalando al mondo un’opera eterna, senza tempo, usufruibile e godibile vita natural durante.

Il treno del blues è arrivato a New Orleans e da New Orleans per il mondo, è questo il messaggio che sembra voler dare Ellington con il brano d’apertura del disco “Blues for New Orleans”; in evidenza il sax alto di Johnny Hodges con il suo tipico fraseggio che riesce sempre a sorprenderti per la sua poeticità, anche se lo avevi ascoltato in tutti i suoi dischi. La sezione dei fiati commenta con passione i solisti che Duke chiama ad esibirsi e Wild Bill Davis spadroneggia con il suo organo Hammond B-3.

In “Bourbon Street Jingling Jollies” il flauto sognante di Norris Turney introduce i suoni percussivi della giungla come il canto melodioso di un uccello che sorvola lo scenario. Il tutto in un’atmosfera soave e leggera, con Harry Carney al clarinetto basso.

In “Portrait of Louis Armstrong” sembra vederlo il grande Satchmo con la sua swingante tromba, gioiosa e festante. I suoi acuti riecheggiano grazie alla rielaborazione di Cootie Williams, il musicista che è stato con Ellington dal 1928 ai tempi del Cotton Club.

 “Thanks for the beautiful Land on the Delta” ha invece un’aria latino americana, quella che io prediligo, dove Duke ha dato l’onore e l’onere di rappresentarla all’eccellente sassofonista Harold Ashby che veramente fa emozionare.

Il contrabbassista Joe Benjamin ha invece il compito di far rivivere Wellman Braud che Ellington ha voluto omaggiare con un “Portrait” con un Harry Carney protagonista con il suo clarinetto e un’orchestra che sprizza note. Wellman Braud ricoprì un ruolo importante nell’orchestra per nove anni sin dal 1927. Nel 1928 Ellington sorprese il mondo del jazz nel mettere il microfono al suo basso quando registrarono lo spumeggiante “Hot and Bothered”, la sua solida battuta fu una risorsa di forza ritmica e ispirazione.

“Second Line”, la traccia n. 6, mette in bella mostra la capacità sinfonica dell’orchestra e il suo swing impareggiabile, imbellito dal clarinetto di Russell Procope e dalla tromba di Cootie Williams e dai commenti al trombone di Booty Wood e Julian Priester.   

“Portrait of Sidney Bechet” è il tributo voluto da Duke al grande sassofonista e clarinettista che fu nella prima formazione dei Duke Ellington’s Washingtonians, anche se lasciò la band prima di aver potuto registrare con loro. A farlo rivivere ci pensa il sax di Paul Gonsalves, che dovette sostituire Johnny Hodges morto poco prima la registrazione. Il critico jazz e scrittore Stanley Dance scrisse a proposito : “Bechet non è stato dimenticato. Gonsalves ha rappresentato a regola d’arte il flusso lirico del maestro, proprio come Johnny Hodges avrebbe fatto”.

Nel suo elogio funebre Ellington incluse Hodges tra i giganti del suo pantheon musicale insieme ad Art Tatum, Sidney Bechet, Django Reinhardt e Billy Strayhorn.

Si apre a ritmo di valzer l’elegante “Aristocracy a la Jean Lafitte” con le note di Harry Carney al sax baritono e di Ellington al piano che invitano a partecipare il flicorno del canadese Fred Stone ad un gioioso pomeriggio al parco quando esplode in noi la gioia di vivere.

Il finale dell’album non poteva essere che questo, con il “Portrait of Mahalia Jackson”. Le note per salutare Mahalia Jackson non potevano essere altre, tutto torna, tutto combina, con il bellissimo flauto di Norris Turney che ci conduce alla fine di questo viaggio indimenticabile.

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