“Capitava che qualche frase che gli usciva dal sax quasi lo spaventasse, come una sorta di rivelazione. La musica era la sua vita e in testa gli giravano passaggi, ritmi. Ogni tanto riusciva ad afferrarne un pezzo e non lo mollava finché non l’aveva ridotto a parte del suo sassofono, a possesso sicuro della sua anima, condannato a restare a vita nella sua memoria” in “Fulmini a Kansas City. L’ascesa di Charlie Parker” di Crouch Stanley. Quello che capitava a Charlie Parker, capita a molti musicisti?

 

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